Prologo

22 Agosto 1815

“Che tremendo frastuono!”

pensò Ellen, mentre nel dormiveglia rincorreva un sogno che a poco a poco svaniva dalla sua memoria.

“Che rumore assordante! Perché non mi lasciano dormire in pace? Siamo in piena notte, la luna brilla alta nel cielo e la scuola non è ancora iniziata! Perché allora non fanno tacere quell’odioso aggeggio?”

Non si ricordava la piccola, stordita com’era dal sonno che  la sveglia suonava così presto  perché quel giorno sarebbe andata, per la prima volta, in cerca di funghi con suo nonno Patrik e suo padre George.

Allora aveva appena sette anni, l’età giusta secondo la tradizione, perché prendesse parte a quello che si era trasformato con l’andar del tempo in un vero e proprio rito: “La cerca dei funghi migliori e pregiati”, nel bosco del piccolo villaggio, dove vivevano i nonni e dove i vecchi raccontavano fosse la casa di numerosi spiriti della natura e creature leggendarie.

Ellen, si era spesso spinta all’interno del bosco da sola durante quell’afosa estate, per trovare refrigerio all’ombra di querce secolari e castagni odorosi, ma mai aveva con suo grande rammarico, incontrato nessun essere che fosse poco più alto di una bacca.

DRIN! DRIN! DRIN!, risuonava sgarbata quella vecchia ferraglia, sembrava le dicesse: “Alzati! Muoviti! Spicciati! Non perdere altro tempo! Non ti darò tregua finché non sarai in piedi!”

Mentre cercava, a tastoni vicino al letto, una delle sue pantofole e la scagliava verso l’antiquato attrezzo, sentì la voce di sua madre che dal piano di sotto la chiamava con tono dolce e leggero, totalmente in contrasto con il fracasso che ancora le rimbombava nelle orecchie.

“Piccola mia, alzati e scendi a fare colazione! Vedrai che bella sorpresa ti ha preparato la tua mamma questa mattina!”.

Senza farselo ripetere due volte balzò in piedi come un lampo, si preparò in tutta fretta e in men che non si dica si trovò seduta sulla panca della grande cucina, pronta a mangiare quelle deliziose ciambelle che già pregustava quando ne aveva sentito l’odore pochi istanti prima.

“Oggi ci sono le ciambelle! Deve essere veramente un giorno speciale!“

pensò Ellen, mentre ne afferrava una e l’intingeva nella tazza di latte caldo e fumante che le solleticava il naso.

“Mangia amore mio” la esortò sua madre “che questa mattina avrai bisogno di molte forze! La cerca è un lavoro tanto interessante, quanto stancante. Su e giù dentro il bosco, camminando, facendo attenzione a dove si mettono i piedi per non calpestare qualche prezioso fungo nascosto dalle foglie, è un’attività molto faticosa che  richiede attenzione, garbo ed accuratezza, se poi avrai la fortuna di incontrare …”

Improvvisamente s’interruppe, raggelata dallo sguardo che in quel momento le aveva lanciato suo padre.

Ellen notò che il nonno, fino a pochi istanti prima intento a ripulire e preparare i panieri per la raccolta, aveva alzato la testa di scatto udendo le parole della figlia e con un’occhiataccia perentoria l’aveva troncato di netto:

“Quante ciance inutili!” disse e rivolta alla nipote “sbrigati piccola, non dobbiamo fare tardi, altrimenti i funghi prelibati andranno ad allietare la tavola di qualcun altro”.

Erano le cinque del mattino quando uscirono da casa e malgrado fosse ancora estate, una brezza gelida accolse i cercatori sulla via del bosco. Nonostante il freddo ed il sonno che ancora l’accompagnava, Ellen era felice ed emozionata, sapeva in cuor suo che quel giorno se lo sarebbe ricordato per tutta la vita.

Si diressero con passo svelto e sicuro verso il bosco. Avendo percorso molte volte quella strada nei giorni precedenti, la piccola si rese subito conto che i sentieri presi dal nonno erano a lei sconosciuti, non ricordava di essere mai passata da quella parte.

Camminarono senza sosta per oltre un’ora, aprendosi numerosi varchi tra la fitta vegetazione che il bosco opponeva per celare i suoi segreti. Erano all’incirca le sette del mattino quando finalmente si fermarono, il sole era già alto nel cielo e quella gelida brezza che li aveva avvolti fino a pochi istanti prima, a poco a poco era scomparsa, sopraffatta da un piacevole tepore.

Il nonno s’arrestò sotto un’immensa quercia  ultracentenaria, si guardò attorno, prese una lunga boccata di quell’aria cristallina e si sfilò lo zaino di tela verde che portava in spalla, lo aprì con movimenti lenti, misurati e accuratamente ne estrasse uno strano cappello fatto di erba e foglie intrecciate che ricordava un grosso nido di rondine. Il profumo che emanava era inebriante, sapeva di erba fresca del mattino, fiori selvatici, miele, terra bagnata, funghi, bacche, di resina e castagne, in poche parole profumava di bosco.

Ellen ne rimase rapita e affascinata, da subito si domandò se non fosse proprio quel bizzarro copricapo, l’oggetto misterioso che il nonno custodiva sottochiave dentro la cassa di legno scuro, posta nell’angolo più buio, nella grande, polverosa e dimenticata soffitta, della casa di campagna, dove lui e la nonna vivevano e dove lei trascorreva le sue vacanze estive.

Senza dare alcuna spiegazione su quello strano oggetto, il nonno se lo pose in testa calcandolo come se avesse paura che un’improvvisa folata di vento glielo potesse strappare via.

“Il nonno è proprio buffo con quel cappello!”  pensò lei, “sembra davvero uno di quei personaggi fantastici descritti nelle storie, gli elfi padroni dei boschi”.

Una volta indossato il cappello, si rivolse ad Ellen con toni gentili e autoritari al tempo stesso:

“Piccola, stiamo per entrare nel bosco dei Belt!. Questo cappello che a te sembrerà sicuramente strano, sarà il nostro lasciapassare, in quel mondo bello ma pieno di pericoli! Tieni gli occhi sempre ben aperti, rispondi con garbo se ti faranno delle domande, ma soprattutto non allontanarti mai né da me né da tuo padre, perdersi nel loro mondo sarebbe per te fatale!”.

Detto questo si girò e si diresse verso l’enorme portale di legno grezzo, comparso dinanzi ai loro occhi in quel preciso istante.

Il portale era alto più di quattro metri e largo poco meno, sembrava scolpito direttamente dal tronco di un albero, una fitta vegetazione rampicante lo ricopriva quasi interamente, lasciando scoperti brevi tratti di legno scuro. Qua e là, erano cresciuti rigogliosi, pezzi di muschio dalla barba lunga e folta, tra di essi si affacciavano, occhieggiando e parlottando, famigliole di funghi chiodini. Questi ultimi, malgrado fossero minuscoli, possedevano dei grandi occhi rotondi e sporgenti con cui guardavano con attenzione qualsiasi cosa si muovesse. In quel momento stavano fissando Ellen con insistenza.

Il portale era anche popolato da miriadi di altri esserini, alcuni dei quali, come lumache, bruchi e ragni, erano comuni ai nostri cercatori, altri invece erano sconosciuti e alquanto strani.

Certuni avevano l’aspetto di foglie, da cui spuntavano nasi lunghi e sottili e orecchie appuntite, i loro occhi erano stretti come fessure e ardenti come brace. Anche le gambe e le braccia erano lunghe e filiformi, terminavano con enormi e sproporzionate mani dalle dita nodose. Avevano il colore delle foglie con sfumature cangianti e proprio questa caratteristica permetteva loro di mimetizzarsi perfettamente tra la vegetazione che popolava il portale. Malgrado si fossero mossi fino a quel momento con estrema lentezza, improvvisamente s’animarono, spostandosi con dei salti lunghi e velocissimi, con i quali riuscirono a percorrere tutto il portale. Questi esseri particolari si chiamavano Trast.

C’erano poi degli esserini rotondi e rossi come bacche di belladonna, apparentemente sembrava che non avessero occhi, naso e bocca e neppure braccia e gambe, poi appena qualcosa o qualcuno li toccava, si aprivano con un “Puff” rivelando un esserino cicciottello e sorridente, con dolci occhi sonnacchiosi e una grande bocca sempre pronta al sorriso. Questo loro aspetto, docile e amichevole, aveva conferito loro il nome di Momm che  nel linguaggio dei Belt vuol dire “zuccherosi”.

Ellen rimase talmente rapita dalla visione di queste creature, sapeva in cuor suo di non dover temere nulla di male da loro, sentiva che erano innocue. Quello che non immaginava la piccola, era che in seguito avrebbe imparato a conoscere talmente bene quelle creature tanto da chiamarle ad una ad una per nome.

All’improvviso si udì un gran boato e contemporaneamente la terra tremò con tanta violenza da far vacillare i tre, seguirono poi numerosi scricchiolanti cigoli.

Il portale prendeva vita!

Le piante e tutte le creature che lo ricoprivano s’affrettarono a spostarsi, per facilitare l’apertura di due grandi occhi e di un’immensa bocca che possente squarciava il legno. Gli esserini a forma di foglia, si sbrigarono poi a spazzar via la polvere accumulata dal tempo sul davanti del mastodontico naso emerso lentamente al centro di quella creatura,  onde evitare disastrosi e terrificanti starnuti.

Una volta guardatosi intorno e sgranchitosi la muscolatura facciale, il portale cominciò a parlare, con voce calda e profonda, rivolgendosi proprio ai tre cercatori che gli sostavano di fronte.

Come accade tra vecchi amici, rivolse alla sua maniera un caldo e affettuoso saluto al nonno di Ellen:

“Buon giorno sir Patrik! Felice di rivedervi, come ogni anno del resto, nel periodo della raccolta. Vedo che questa volta non siete venuto da solo!”

“Buongiorno anche a te Portal! Ti trovo bene, malgrado il muschio che ogni anno aumenta! Si! Quest’anno ho portato con me, oltre mio genero George che  già conosci da tempo, mia nipote Ellen. Lei è l’unica tra tutti i miei nipoti a possedere il dono, anche se ancora non ne è consapevole, io glielo leggo negli occhi ogni giorno che passa, in lei è riposta tutta la mia speranza, sarà a lei che un giorno lascerò il cappello”.

Ellen non capiva ciò che il nonno stava dicendo, era ancora paralizzata e sotto shock, non capita tutti i giorni di imbattersi in piccole creature saltellanti e in giganteschi portali parlanti, solo in seguito, suo malgrado, avrebbe saputo con chiarezza cosa intendesse dire suo nonno con quelle parole.

Portal l’osservò con tanta attenzione che per un attimo ad Ellen parve di non poter nascondere nessuna emozione a quell’enorme essere. Poi si rivolse di nuovo al nonno ed annuendo disse:

“Si! Sembra che tu abbia davvero ragione sulla piccola, lei un giorno porterà il cappello! Passate dunque e   entrate nel regno dei Belt, ma fate attenzione! Strane e perfide creature si sono intrufolate da chissà dove in questo mondo, ancora non ci sono chiare le loro intenzioni, sono però sicuramente pericolose per coloro che posseggono il dono!”.

Detto questo, spalancò l’enorme bocca e li invitò ad entrare in quell’immenso buco nero. Per primo si incamminò il nonno senza neanche un attimo di esitazione, sembrava che fosse una cosa normale per lui addentrarsi tra le fauci di quell’antico mostro.

Ellen entrò terrorizzata stringendo la mano dal padre, una morsa gelida le attanagliava lo stomaco, mentre si aggrappava al suo braccio, come un naufrago ad un’ancora di salvezza. Attraversò il passaggio ad occhi chiusi, non avendo il coraggio di vedere cosa l’aspettava dall’altra parte.

Una volta passati, la bocca si richiuse e il portale scomparve alle loro spalle. Ellen aveva ancora gli occhi chiusi quando il padre le toccò dolcemente la guancia:

“Apri gli occhi piccola e guardati intorno, il mondo dei Belt è uno spettacolo che non ti puoi perdere”

Ellen li dischiuse pian piano, sbattendoli incredula, volgendo lo sguardo in ogni direzione. Non aveva mai visto nulla di simile!

Quel bosco irreale, possedeva uno spirito ed una vita propria: gli alberi avevano volti scolpiti nella corteccia, con nasi ramificati, nodosi e grossi occhi con sguardi attenti e bonari, carichi di tutta quella saggezza maturata nel tempo. Le loro bocche plasmate nel legno, erano pronunciate e contorte come le possenti radici che li ancoravano a terra. Avevano poi lunghe, folte e verdi chiome che danzavano ad ogni sussurro di vento.

Questi erano i Belt, di cui tanto aveva sentito favoleggiare.

Ai piedi di queste possenti creature crescevano funghi grandi come sgabelli, il cui aspetto, era del tutto identico a quello dei comuni funghi a cui Ellen era abituata, mentre le dimensioni erano decisamente inusitate. Uno di loro addirittura la sovrastava con il suo grande e maculato cappello.

C’è n’erano di diverse qualità, perlopiù sconosciute alla piccola, ma dall’aspetto invitante.

Grosse e variopinte bacche, pendevano da lunghi rami rampicanti e ad Ellen parve per un momento che una foglia di quei tralci la guardasse con due occhietti vispi e dispettosi.

I bellissimi fiori odorosi che crescevano ai lati degli alberi e sui declivi erbosi, avevano forma di farfalla e si muovevano ondeggiando i delicati e colorati petali.

Totalmente rapita da quella meravigliosa visione, la piccola non si era accorta d’essersi incamminata, guidata dal padre che ancora la teneva per mano. Da subito si rese conto che l’erba calpestata dal loro passare si riassestava respirando dopo che s’erano allontanati.

Un vociare di piccoli esseri accompagnava il loro cammino, grida, risate e rumori di festa si alternavano a tonfi e fracasso di lotta, sembrava che qualcuno e qualcosa si divertisse prima a rincorrersi e poi ad azzuffarsi (come scoprirà in seguito Ellen, questo era uno dei passatempi preferiti dai Folletti dei Belt).

Non seppe dire quanto stettero tra quelle creature, il tempo in quel bosco fatato era relativo.

Quando raggiunsero un’immensa radura, delimitata da antichi alberi colossali delle specie più varie, Ellen notò subito l’assenza ai loro piedi dei grandi e profumati funghi che ormai si era abituata a scorgere in quel bosco.

Alla vista dei tre cercatori, i Belt intonarono uno dopo l’altro un’assordante e ritmata cantilena, sembrava che parlassero tra di loro, con il linguaggio segreto della loro specie. Quel suono, dai toni così profondi ma leggeri al tempo stesso, ricordò ad Ellen il sibilo del vento quando passa con vigore tra le cavità degli alberi. Finche durò quel “canto”, il padre di Ellen le fece segno di non parlare né tanto meno di fare rumore. Sarebbe stato imprudente disturbarli in quel momento.

Appena i Belt smisero di parlare, il nonno avanzò fino al centro della radura, fece un profondo inchino e si tolse il cappello in segno di saluto e rispetto nei confronti dei vecchi alberi sovrani di quel luogo. Fatto questo indietreggiò fino agli altri due che  lo aspettavano in silenzio, gustandosi la scena. Infine disse:

“Bene! Ora possiamo iniziare la cerca dei funghi. Fai bene attenzione mia piccola, ai gesti che compiremo io e tuo padre”

Ellen non riusciva a capire, non vedeva nessun fungo spuntare ai piedi degli alberi, perché allora scegliere quel posto, quando ne avevano incontrati di enormi e profumati lungo tutta la via? Poi di colpo le fu tutto chiaro seguendo i movimenti del nonno vide cosa stava accadendo e capì.

Patrik si avvicinò ad un primo albero, un castagno bicentenario dall’aria tutt’altro che docile, batté delicatamente sul tronco con la mano per due volte e disse:

“Fungotti, di grazia! Sono in cerca! Avete qualcosa per me?”

immediatamente spuntarono tra le radici del castagno due dozzine di grossi funghi porcini.

Iniziarono così la raccolta di quei funghi che, come per magia, spuntavano dal sottosuolo. Quando ebbero i canestri colmi, il nonno disse ad Ellen:

“Vedi piccola, se sarai gentile con le creature del bosco loro ti ripagheranno sempre! Ora che abbiamo funghi a sufficienza per l’intero anno, possiamo tornarcene a casa. Arriveremo giusto per l’ora di pranzo!”.

Mentre il nonno le parlava, Ellen fu distratta da qualcosa di molto piccolo che  per un attimo era apparso tra le radici di un Belt quercia. Guardando con più attenzione, notò che quel qualcosa, altro non era che un esserino molto simile ad un fungo e come esso poco più alto: aveva il corpo cicciottello, con grandi piedi piatti, le lunghe braccia terminavano con piccole e delicate mani, aveva un gran nasone a patata e due occhi tondi che sporgevano da un gran cappello a punta con lunghe falde laterali. Sembrava inoltre, per la consistenza e l’odore che emanava, il cappello di un fungo. Era vestito con una semplice tunica che  ricadeva morbida fino ai piedi, decorata con una cucitura incrociata sul davanti.

Ellen trovò quella creatura davvero molto graziosa! L’esserino, come vide la fanciulla avvicinarsi, rimase per un po’ a guardarla, sembrava che si studiassero a vicenda, poi, come se avesse riconosciuto in lei qualcuno di importante le fece un profondo inchino e in un lampo scomparve risucchiato dal terreno.

La bimba, come altre volte quella mattina, non riusciva a credere in quello che aveva appena visto. Prima che potesse fare domande, il padre le disse:

“Oh … sei stata fortunata! Sei riuscita a vedere un Fungotto, la prima volta che partecipi alla cerca! Questo è un buon segno! Ti porterà certamente fortuna!” poi rivolgendosi quasi a se stesso “Per fortuna almeno tu possiedi il dono!”.

Un Fungotto! Ecco chi era! Un folletto dei funghi!

Quante volte ne aveva sentito parlare dagli anziani del paese, chissà però chi davvero tra di loro aveva avuto la fortuna di incontrarne uno. Con il cuore pieno di gioia ed emozione, raggiunse il padre ed il nonno che, raccolti gli ultimi funghi, stavano già incamminandosi per la strada del ritorno.

Il mondo dei Belt era un mondo assai strano, non soltanto per le creature che lo popolavano, ma anche per le forze misteriose che lo regolavano. Apparentemente era privo di insidie, i Belt stessi, nonostante l’aspetto burbero e serio, erano mansueti. L’atmosfera era rilassata, gaia, si sarebbe detto un ambiente senza pericoli, l’apparenza però ingannava, poiché molti spiriti oscuri si aggiravano in esso.

Questi esseri senza nome e senza storia, difficili da controllare, scatenavano dissapori e malcontento tra le creature del bosco instillando malvagità e perfidia.

Amanti del dolore e delle tenebre, avevano la caratteristica di tramutarsi in esseri dall’aspetto aggraziato e dai toni tanto affabili e gentili, quanto invero subdoli e cattivi. Persino le loro sembianze, una volta smascherati, rivelavano la vera essenza che li caratterizzava: erano esseri mostruosi, pieni di pustole rigonfie di un pestilenziale liquido viola, con lunghi e ispidi capelli del color della stoppa. Il volto lungo e sottile aveva zigomi spigolosi, ovunque spuntavano rughe e profondi solchi, tra una pelle talmente secca da sembrare cuoio conciato. Gli occhi erano piccoli come punte di spilloni, neri come il carbone, senza ne iride ne pupilla, impenetrabili. Contrariamente al resto della figura, il naso era grosso e deforme e da esso spuntavano a grappoli pustole e protuberanze grondanti gocce di velenoso violaceo siero. Stranamente, le loro bocche non possedevano denti, ma gengive durissime con le quali riuscivano a strappare la carne cruda con cui in mancanza di meglio si nutrivano. Le mani dalle dita lunghe e affusolate, possedevano unghie ricurve ad uncino, nere, sporche e infette. I piedi, contrariamente al resto del corpo, erano minuscoli e sproporzionati (proprio grazie a quest’ultimi riuscivano a spostarsi in maniera veloce ed estremamente silenziosa). Nessuno sapeva quanto queste creature fossero realmente alte, perché s’allungavano e s’accorciavano a loro piacere. Riuscivano all’occorrenza, anche a rendersi evanescenti come fumo, così da poter attraversare qualsiasi pertugio, qualsiasi porta e non c’era ostacolo terreno che le potesse bloccare. Il loro aspetto scheletrico, insieme a tutto il resto, le faceva rassomigliare in tutto e per tutto a spettri. Una caratteristica non a tutti nota, era che avevano la pancia trasparente, dove ahimè, spesso si potevano intravedere i resti dell’ultimo pasto consumato. Questo , era il loro tallone d’Achille, l’unico punto debole di tali immonde creature. Se le si riusciva a toccare con una qualsiasi cosa in quel punto, immediatamente scoppiavano, come palloni rigonfi d’acqua. Anche il calore era loro nemico, provocando dal ventre il medesimo effetto. Per questo motivo, lo proteggevano con una corazza di cuoio spesso e foglie, in modo da attutire i colpi ed isolarsi dal calore esterno. Non avevano sangue caldo che gli circolava tra le vene, ma un liquido refrigerante che ne evitava l’auto implosione. Si cibavano di tutto quello che gli capitava a tiro, vivo o morto, per loro non faceva grande differenza, amavano particolarmente i giovani folletti e i germogli dei Belt, le tenere pianticelle quando iniziavano ad emettere i primi suoni. Erano inoltre ghiotti di Fungotti, con cui si divertivano molto, smembrandoli drammaticamente ed ingurgitandoli in un sol boccone. Amavano torturare perfidamente le loro vittime, i predestinati venivano scelti a volte anche solo in base ad un capriccio o ad una scommessa. Divennero in breve tempo una vera e propria piaga per tutto il bosco. I Belt  intuivano il vero motivo per cui questi esseri si erano intrufolati nel loro mondo: in realtà volevano distruggerlo e già stavano operando per rovinare quel delicato equilibrio. Non ne conoscevano il nome, quindi li soprannominarono Laprin (senza anima, nell’antica lingua) proprio in base alle loro malefiche caratteristiche. In breve tempo, sarebbero diventati ben noti a tutta la comunità beltiana che avrebbe imparato a temerli e contrastarli.

Quello che i Belt non sapevano, era che questi esseri immondi, non agivano per propria volontà, bensì guidati da una forza potente e malefica, un’entità antica come il loro mondo, per secoli imprigionata da un potente incantesimo che per cause oscure aveva smesso di funzionare, lasciandola libera di agire a suo piacimento.

Lilith, questo era il nome  dell’antica strega nera che ora tentava di soggiogare con la violenza e l’inganno quel mondo così pacifico. Nei suoi subdoli piani, non voleva solamente distruggere il bosco dei Belt, ma anche il mondo degli uomini, colpevoli entrambi di averla tradita e fatta soffrire in passato.

Per raggiungere i suoi scopi, aveva soggiogato la feccia di quel modo, i “Laprin”,  maggiorandoli in astuzia e perfidia. Per evitare che fossero scoperti e annientati, li aveva anche dotati di un’altra e potente magia: potevano all’occorrenza, prendere le sembianze di esseri bellissimi e gentili, di cui nessuno avrebbe potuto dubitare e gli unici in grado di smascherarli erano i discendenti dell’antica Stirpe.

L’antica Stirpe, risaliva a migliaia di anni prima, quando ancora non c’era distinzione sulla terra, né temporale né dimensionale, dei vari mondi che  si ritrovavano semplicemente mescolati assieme, non esistevano portali d’accesso, tutti gli esseri erano liberi di unirsi e di scegliersi come meglio credevano.

Razze diverse e spiriti opposti vivevano e si frequentavano senza limitazioni e da questa promiscua esistenza nacque la Stirpe. In origine la Stirpe era formata da esseri con le caratteristiche più disparate: chi aveva le orecchie a punta degli elfi e la pelle rossiccia degli gnomi, chi era diafano e leggiadro come una fata e al tempo stesso possedeva il corpo tozzo e tarchiato tipico dei nani, numerose erano le sembianze degli esseri della Stirpe. Malgrado tutte queste diversità somatiche, il dono che possedevano in comune era uguale per tutti. Questo speciale dono era stato creato dalle creature magiche appositamente per proteggere il bosco nel futuro. Consisteva nel saper riconoscere e di conseguenza sconfiggere il male ovunque si trovasse, avevano la peculiarità di vedere la realtà più profonda e di leggere nell’anima, di mettere a nudo l’essenza degli esseri viventi sia umani che magici, riuscendo in questo modo sempre a prevenire guerre e catastrofi, preservandosi dal dolore e dalla distruzione.

Lontani erano però quei tempi: il dono della Stirpe pur preservandoli dal male, non poté interrompere il ciclo naturale degli eventi, non riuscì a fermare la divisione dei mondi e il conseguente disgregarsi di civiltà magiche. Fu così che  dividendosi le dimensioni, iniziarono pian piano a spopolarsi, tanto che quegli esseri speciali si mescolarono con il genere umano. Molte discendenze nate da queste unioni con umani, persero il potere, ne persero la maestria nell’utilizzo, pochi erano ormai coloro che sapevano e consapevolmente utilizzavano il dono.

Fu per questo motivo che nel mondo dei Belt, si decise di donare un oggetto magico, creato dagli elfi dei funghi, per quegli uomini così speciali. Questo oggetto, li avrebbe per sempre legati a loro, assicurandogli protezione ed aiuto in caso di necessità. I Belt scelsero un cappello e lo fecero creare dai funghi con tutti gli elementi che caratterizzavano il bosco, in modo che il possessore, custodendolo ed utilizzandolo con cura, rinnovasse il legame con quel mondo. Ormai per gli uomini, l’unica via d’accesso nel mondo dei Belt era il cappello. Proprio quel cappello così strano che ad Ellen sembrava un grande nido di rondine, era la chiave d’accesso per quel magico mondo. La piccola però, tutto questo non lo sapeva, come non sapeva fino ad allora di possedere il dono.

“Il dono? Che sarà mai? Forse un regalo che mi ha fatto il nonno e di cui io non mi ricordo? Che potrà mai essere!”

Così pensava Ellen, mentre pian piano stava ritornando verso casa, insieme ai suoi cari, ripercorrendo a ritroso la strada già fatta. All’improvviso una strana sensazione pervase la piccola, si sentì osservata da sguardi che la misero a disagio, incutendole angoscia e addirittura terrore, non aveva provato quella sensazione durante l’andata, cosa era cambiato adesso? Chi o che cosa si era aggiunto tra i tanti sguardi che la circondavano? Che cosa era celato tra la fitta boscaglia ora?

Anche il nonno aveva avvertito qualcosa, tanto che la strinse a se ed accelerò i suoi passi. Ben presto furono dinanzi a Portal che  comparso all’improvviso li fece attraversare senza batter ciglio. Si ritrovarono nel mondo degli uomini e Ellen malgrado le splendide cose che aveva visto e le meravigliose creature che aveva conosciuto, ringraziò il cielo di esservi tornata.

Una volta passati, salutarono il portale che  scomparve silenziosamente alle loro spalle. Il nonno si tolse il cappello e lo ripose delicatamente nello zaino, non disse nulla su quello che era successo, né tanto meno Ellen osò fare domande, conosceva suo nonno, vedeva chiaramente che era turbato e scosso, parlare o domandare adesso sarebbe stato inutile, avrebbe chiesto qualche spiegazione l’indomani, quando tutto sarebbe ormai passato. Se solo avesse fatto qualche domanda subito, forse le cose sarebbero andate diversamente, da come in seguito si evolsero.

Anche se lei non aveva percepito da subito la presenza degli esseri malefici, in quel mondo, questi ultimi avvertirono immediatamente il suo arrivo, sentirono quanto grande, pericoloso e devastante fosse il suo potere. Avrebbe potuto smascherarli e annientarli in un batter d’occhio, se solo ne fosse stata consapevole. I Laprin dovevano correre ai ripari, sbarazzandosi di quella potente ragazzina, prima che diventasse attiva nel dono. Intanto lei ignara di tutto, se ne tornava a casa con passo leggero e la brutta sensazione che aveva provato poco prima, già l’aveva abbandonata lasciando il posto alla gran fame che iniziava a farsi sentire.

“Chissà cosa ci ha preparato la mamma per pranzo! E chissà se quel pelandrone di mio fratello Thomas, mi ha lasciato qualche ciambella! Però … non capisco proprio perché il nonno non lo ha mai portato con se alla cerca dei funghi, di sicuro si sarebbe divertito! Mm … forse avrebbe tirato sassi ai Belt! Asino com’è! Il nonno ha davvero sempre ragione!”.

Questo pensava la piccola, mentre si avvicinava sempre di più al cortile della grande casa dei nonni. Poi improvvisamente il vento portò il profumo dei manicaretti  che la mamma aveva cucinato ed Ellen tra tutti riconobbe quello dell’arrosto. In quel momento nulla aveva più importanza se non il cibo. Prima di entrare in casa, il nonno però la fermò e le fece giurare che non avrebbe raccontato mai a nessuno ciò che aveva visto e sentito.

Quello era il loro segreto! Ellen giurò senza esitare, poi insieme varcarono la soglia.

Dopo il ricco pasto, salì nella sua cameretta, tremendamente stanca e s’addormentò come un sasso. Il sonno però non fu sereno e ristoratore come quello che in realtà meritava, fu popolato da creature malefiche e minacciose che  in qualche modo tentavano di strapparla da quella casa e dai suoi affetti più cari.

Quando si risvegliò, il sole stava già tramontando: “le giornate si stanno accorciando” pensò “presto arriverà l’autunno e con esso la scuola! Uffa! che darei per poter vivere nel mondo dei Belt”.

Come pronunciò quelle parole, le tornarono alla mente, tutte le meravigliose creature che aveva incontrato, i suoni che aveva sentito, i profumi e l’incanto di quel Fungotto, apparso dal nulla. Decise così di sfruttare, le poche ore che la dividevano dalla cena, per descrivere e illustrare nel suo diario ciò che aveva visto e sentito quel giorno. Si mise subito all’opera e con maestria da pittore rappresentò fedelmente tutti gli esseri incontrati. Li fece con colori sgargianti, donando ad ognuno di essi lo sguardo curioso che tanto l’aveva colpita. Finito il tutto, chiuse il diario e lo nascose in un cassetto, fra la sua biancheria, l’unico posto dove, era sicura, suo fratello Thomas non avrebbe curiosato.

Fatto questo scese in giardino, notò che il nonno aveva ripulito dalla terra tutti i funghi raccolti e li aveva disposti su delle reti ad asciugare al sole, così da poterli conservare per tutto l’anno. Solamente ora vedendoli così in ordine davanti ai suoi occhi, si rese conto di quanti funghi avevano raccolto, in condizioni normali ci sarebbero voluti mesi di cerca per trovarne tanti.

“Ecco perché il nonno non dice mai a nessuno dove li trova e si è sempre fatto accompagnare solamente da mio padre! Ecco perché in paese si è guadagnato non solo la fama di miglior cercatore, ma anche l’invidia di molti, soprattutto del signor Farret che ogni volta, lo guarda e gli parla come se conoscesse il nostro segreto. Il nostro segreto! Ora anche io ho un segreto da custodire, proprio come i grandi!”

Mentre pensava questo, sentì le urla dei gatti nel cortile, “Sarà sicuramente quel babbeo di Thomas che gli da la caccia, se non lo fermo finirà per fargli del male!”

Corse allora dal fratello ancora una volta dimenticandosi del resto.

Dopo cena si trattenne per giocare a carte con sua nonna, poi la stanchezza la fece da padrona e prese il sopravvento su di lei, andò quindi a dormire ripromettendosi l’indomani di aiutare il nonno con tutti quei funghi. Prima di coricarsi avrebbe finito di appuntare sul suo diario alcuni particolari di quella giornata che le erano appena tornati alla mente. Quando finalmente ebbe finito, ripose di nuovo il diario nel fondo del cassetto e spense il lume a olio sul suo comodino. Anche stavolta cadde addormentata, in un sonno innaturalmente profondo. Quella notte fu straordinariamente tranquilla, non c’erano ne grilli ne rane a rallegrarla con il loro canto, persino la luna sembrava essersi spenta! Tutto era immerso in un silenzioso e profondo buio.

L’indomani Margaret, la mamma di Ellen, scese come tutte le mattine per preparare la colazione. Durante il periodo estivo, era lei che si occupava di questa mansione, lasciando riposare la padrona di casa, sua madre Connie. Scese le grandi e lise scale di pietra, facendo attenzione a non far rumore, per non svegliare il resto della famiglia. Aprì le finestre della sala e si diresse verso la cucina che  ancora tratteneva l’odore di fritto per le ciambelle cucinate il giorno precedente, le tornò in mente la sua piccola Ellen, era fiera di lei, di come se l’era cavata il giorno prima e di quanto fosse stata brava a conservare quel segreto troppo grande per la sua tenera età. Certamente aveva sentito la necessità di raccontarle tutto, una volta giunta a casa, come faceva sempre di ritorno dalla scuola, ma si era trattenuta, tenendo fede a quanto aveva giurato al nonno, la tradivano soltanto i suoi occhietti brillanti, vispi ed emozionati come non mai, “La mia piccola mi ha reso davvero molto orgogliosa” pensò.

Poi le venne in mente la sua infanzia e la prima volta che suo padre Patrik l’aveva condotta con se alla cerca. Lei non si era comportata altrettanto bene, era stata sgarbata con gli esseri del bosco e si era preclusa la possibilità di ritornarvi, dando così un gran dolore a suo padre, amico di quelle creature così gentili.

“Che stupida che ero allora! Ho perso a causa del mio comportamento sbagliato non solo il mio dono ma anche l’affetto di mio padre! Per fortuna Ellen è diversa, lei è davvero degna di appartenere all’antica Stirpe”.

Mentre cominciava a preparare le uova, avvertì un suono che la mise in allarme, era un sibilo lungo e lento, si mise in ascolto, rendendosi conto dopo poco che era il trillo di una campanella, sembrava proprio la campana che i Belt usavano per richiamare i possessori dei cappelli, quegli uomini speciali votati ad aiutarli in caso di pericolo. Solo un’altra volta aveva udito quel suono, vent’anni prima quando era troppo giovane per capirne l’importanza, in quell’occasione rintoccò perché un vecchissimo albero stava morendo per via di un parassita e si richiedeva l’intervento di un esperto che potesse salvarlo.

Era quindi successo qualcosa di grave, doveva avvertire immediatamente suo padre. Mentre già si accingeva a salire le scale per correre da lui, lo vide uscire con la faccia stralunata dalla propria stanza, seguito dalla moglie che nella furia del momento non riusciva ad infilarsi la vestaglia.

Una sola cosa le disse mentre si dirigeva verso la soffitta “Sveglia Ellen e preparala, io vado a prendere il cappello, ci stanno chiamando e lei deve venire con me!”.

Senza chiedere inutili spiegazioni, Margaret si diresse verso la stanza della figlia, tutto si sarebbe aspettato di vedere oltre quella porta, tranne la scena che le si presentò dinanzi agli occhi: il letto della piccola era stato capovolto, il materasso giaceva in terra insieme alle lenzuola sparse ovunque, gli oggetti erano stati freneticamente buttati in terra, calpestati rotti e rovinati come se qualcuno non essendo riuscito a trovare quello che cercava, si fosse sfogato distruggendo tutto il resto. Come se non bastasse un tremendo odore pestilenziale ammorbava l’aria, la cosa però che le fece raggelare il sangue e fermare per un attimo il cuore, fu l’assenza della sua piccola, la chiamò più volte, sperando di vederla spuntare da qualche fortunato nascondiglio. Non avendo risposta, come un animale ferito iniziò a cercarla per tutta la stanza. Poi corse alla finestra, la trovò stranamente chiusa, sul davanzale notò una poltiglia violacea e maleodorante che la rendeva inavvicinabile, capì allora cosa fosse successo e che i colpevoli non facevano parte di questo mondo ma di qualche altro. Non riuscì ad emettere nessun suono, né un grido né un lamento, s’accasciò a terra e scoppiò a piangere, fu un pianto di rabbia e di dolore.

In quel momento entrarono tutti gli altri, rimasero ammutoliti, attoniti, tra loro si fece avanti solo suo padre che  recava in mano lo zaino dentro il quale riponeva sempre il cappello, prima di metterlo al sicuro nella cassa, anche quest’ultimo era sparito e anche lì c’erano le stesse maleodoranti tracce che  i malfattori avevano lasciato nella stanza. Purtroppo senza il cappello, svaniva ogni speranza di tornare nel mondo dei Belt per riportare indietro la piccola Ellen.

Non potevano salvarla, non avrebbero potuto più riabbracciare il loro piccolo amore. Patrik con gli occhi pieni di dolore, si chinò su sua figlia e dopo lunghi anni di reciproca indifferenza i due s’abbracciarono, guardando attoniti l’uno negli occhi dell’altro, in cerca di conforto e speranza. Rimasero così per alcuni istanti, poi George pazzo di dolore, con gli occhi lucidi e furenti, disse rivolgendosi a Patrik:

“Ora basta con tutte queste storie, mi condurrai dove sorge il portale! Voglio proprio vedere se resisterà ai fendenti della mia ascia, sono certo che mi farà passare!”.

Detto questo, si precipitò nella capanna degli attrezzi, per agguantare la lama più grande ed affilata lì riposta. Nel frattempo il nonno prese in disparte la moglie e le disse di correre dal signor Farret, per raccontargli l’accaduto, lui avrebbe potuto dare una mano concreta nel ritrovare Ellen, poi partì dietro al genero che già correva, pazzo d’odio, in direzione del bosco.

Come ordinatole dal marito, la vecchia signora Connie si vestì in tutta fretta, per recarsi nella casa di Shon Farret, lei non possedeva il dono, non aveva mai visto nulla del mondo che le raccontava suo marito, vissuta sempre con il timor di Dio, per lei l’importante nella vita era mantenere pulita ed ordinata la casa, condurre un esistenza impeccabile agli occhi della gente e   andare ogni domenica in chiesa, tutto quello che non rientrava in questo quadro di cose non aveva importanza. gnomi, fate, Fungotti, Belt, facevano parte di un mondo fino a quel momento lontano. Ma ora, era giunto il momento anche per lei di aprire gli occhi e di confrontarsi con una realtà diversa dalla sua. Prese la borsa, si fissò il cappello di paglia sulla testa e   uscì di casa, in direzione della vecchia fattoria Farret, lasciando sua figlia inebetita e balbettante sulla panca della grande cucina.

L’unico che ancora non si era accorto di nulla era Thomas, continuava a dormire beatamente nel suo letto, senza che nessun rumore, né odore, potesse svegliarlo. Quando si destò, il sole era già alto nel cielo, nessun suono proveniva dal basso “strano!” pensò “forse hanno già fatto tutti colazione e sono usciti! Speriamo che la mamma mi abbia messo da parte la mia razione! Ho una fame!”.

Quando uscì dalla propria stanza, si diresse ignaro verso la cucina dove trovò sua madre che ancora scioccata vedendolo tornò a piangere, “Ellen” questa fu l’unica parola che riuscì a dire guardando il figlio attonita.

Intuendo la gravità della situazione andò fuori e chiamò sua sorella, non vedendola arrivare corse in camera sua dove ciò che vide e l’odore che sentì, gli fecero stringere lo stomaco e mancare il fiato per un attimo. Quindi si fece forza, ricordandosi che ormai era un uomo e   iniziò a perlustrare quel posto divenuto irriconoscibile. Veramente non capiva cosa potesse essere successo alla sorella, non sapeva darsi una spiegazione per quel trambusto e per quel liquame violaceo e maleodorante sparso ovunque.

Improvvisandosi investigatore iniziò a frugare tra tutte quelle cose, fino a che non gli capitò in mano il diario segreto di Ellen. Lo prese, aprì con maestria il lucchetto che lo chiudeva ed iniziò a sfogliarlo. Apprese in quel modo ciò che lui neanche poteva lontanamente immaginare, venne a conoscenza del mondo dei Belt e di tutte le creature in cui Ellen si era imbattuta. Lo tenne per se, senza rivelare la sua scoperta agli altri membri della famiglia. Decise anche di raccogliere un campione di quel liquame “Ogni investigatore che si rispetti deve raccogliere delle prove!” pensò tra sé e sé, prese quindi una boccettina di profumo della sorella, la svuotò e la riempì con una cospicua dose di quella sostanza, la richiuse con cautela e se la infilò nella tasca della giacca da camera, insieme con il diario.

Poi scese in cucina a consolare la madre e a veder di mangiare qualcosa. Trovò solo un pezzo di pane e mentre lo addentava iniziò a pensare che forse da quel momento sarebbe diventato figlio unico che  tutte le attenzioni sarebbero ritornate su di lui, così come era stato prima che nascesse quella rompiscatole. Tutto sommato quell’improvvisa sparizione poteva essere per lui un evento di cui gioire. Se non l’avessero più scovata tutto sarebbe tornato ad essere come doveva, lui il preferito della casa, coccolato e viziato da tutti. Per un attimo si augurò che nessuno la ritrovasse più.

Mentre questi pensieri gli attraversavano la mente, rientrò la nonna, la sua faccia non lasciava presagire nulla di buono, il volto era bianco con un espressione tirata e stanca, sembrava di colpo invecchiata di molti anni. Come la vide entrare, Margaret si scosse da quel drammatico torpore in cui era piombata e senza nemmeno accorgersi della presenza del figlio, corse a chiedergli notizie, purtroppo la madre non ne portò di buone, anzi, spense del tutto l’ultimo frammento di speranza che in cuor suo coltivava.

Una volta giunta alla fattoria dei Farret trovò quest’ultimo seduto a terra nel grande cortile d’ingresso, in mano teneva un panno di lino grezzo, totalmente impregnato di quella sostanza nauseabonda e violacea, la stessa lasciata nella camera di Ellen e nello zaino del marito. Shon Farret, con una mano stringeva un lembo della stoffa e con l’altra continuava a colpire il terreno ripetutamente, ormai senza più volontà né forza, ultimo strascico di uno sfogo violento. Anche il suo cappello durante la notte era sparito, ma lui, contrariamente al nonno di Ellen, conosceva i mostri che l’avevano trafugato, sapeva chi fossero e come erano fatti, poteva dargli un nome e una collocazione nel mondo dei Belt. Quello che non capiva, era il motivo per cui avevano rubato tutti i cappelli, non avendone bisogno per spostarsi tra i due mondi.

Quando vide la nonna di Ellen ed ascoltò quello che era successo, decise che non poteva starsene seduto nella polvere a piangere e disperarsi per ciò che gli era stato rubato, quindi promise di aiutare il suo vecchio amico a ritrovare la piccola e lasciando la donna in piedi senza parole, corse verso il bosco in direzione del portale. Lì trovò il nonno ed il papà di Ellen che  invano tentavano di evocarlo senza successo, urlando disperati e prendendo ad accettate gli alberi che gli capitavano a tiro. Fecero di tutto, ma gli spiriti della natura non li ascoltarono. Quando poi videro Shon Farret e seppero da lui che anche il suo cappello era sparito, dovettero arrendersi a quel destino così crudele, la piccola era persa e persa per sempre. Una volta rincasati nessuno ebbe più voglia di parlare, era come se una nube densa di dolore si fosse disciolta su di loro.

La gioia e il futuro erano ormai spariti da quella casa, insieme a quella piccola che tanto era amata da tutti. Passò così l’estate e i giorni per i componenti di quella sfortunata famiglia trascorsero nel tormento e nel dolore. La cosa che poi, più faceva soffrire il nonno, era che solamente lui avrebbe potuto salvare la piccola, se solo avesse dato retto a quel suo presentimento, quella sensazione di malessere e terrore che provò il giorno della cerca, mentre si accingevano ad uscire dal bosco dei Belt.

“Perché non l’ho protetta da chi voleva farle del male? Perché non ho dato retta al mio dono? Perché non l’ho mai messa in guardia sugli esseri malvagi che popolano quel mondo? Forse sapendo della strega avrebbe potuto difendersi e salvarsi! Cosa pensavo di fare tenendola all’oscuro da questi argomenti? Che vecchio stupido! Stolto che sono! Che vecchio stupido! Stupido, stolto! Forse ora questo dono non sarebbe diventato la mia condanna, la condanna per la mia nipotina”.

In genitori di Ellen non ebbero più il coraggio di lasciare quella casa, non tornarono più nella loro dimora cittadina, rimasero lì con la speranza che la loro piccola un giorno o l’altro potesse farvi ritorno.

La storia di Ellen ben presto fece il giro di tutto il piccolo paese, per la prima volta gli abitanti dell’altro mondo avevano rapito un essere umano, innocente, senza un motivo valido e senza appello.

La sua storia col tempo divenne leggenda e come ogni leggenda venne dimenticata dai più che si scordarono di quella piccola e gentile bambina che illuminava gli animi solamente con un sorriso.

Di lei non se ne seppe più niente, si perse la sua memoria nel tempo. L’unico ricordo tangibile fu una piccola statuetta che  la famiglia volle regalare al paese e che fu messa al centro della piazza principale, perché fosse monito a tutti, mettendoli in guardia nei confronti degli abitanti di quel magico mondo.

Ma col tempo sbiadì la memoria anche di quello, i giovani non sapevano più chi era il personaggio in quella figurina e agli anziani faceva troppo male ricordare.

L’oblio così inghiottì inesorabilmente tutto.